“Chi entra deve sapere che potrebbe non uscirne vivo, per questo si chiama Andavamamba – nella bocca del coccodrillo”. Queste sono le parole rassicuranti che Don Luciano pronuncia lungo la strada che collega la sua missione al malfamato quartiere di Andavamamba.
Don
Luciano Mariani è un missionario Orionino che vive ad Antananarivo da tanti
anni, quindici per l’esattezza. Dalla “bocca del coccodrillo” provengono tanti
bambini e ragazzi che frequentano le scuole della missione, e molti adulti si
recano alla chiesa la domenica per seguire la messa. La chiesa è semplice ma enorme,
e durante la funzione arriva a contenere più di tremila persone.
Per
un bianco, o “vazaha” come dicono da queste parti, entrare ad Andavamamba
sarebbe impossibile. Don Luciano è conosciuto e rispettato, e la sua presenza è
il salvacondotto che apre le fauci del coccodrillo senza venire masticati.
Questo
quartiere di sviluppa oltre una delle strade più trafficate della capitale, piene
di negozi per turisti, ville e centri commerciali. E’ la perfetti sintesi del
nostro mondo: oltre il limite netto che circoscrive la ricchezza, c’è la
miseria e la povertà assoluta. O stai di qua, o stai di là.
Ci
sono termini molto eloquenti per definire questo quartiere della capitale
malgascia: bidonville, slum, favela, baraccopoli.
La
particolarità di Andavamamba è che le baracche sono distribuite su un terreno
acquitrinoso. L’acqua è putrida, vi galleggiano spazzatura e carcasse di
animali. È facile intuire che nella stessa acqua finiscano le deiezioni dei
suoi abitanti. In mezzo alla palude si elevano isolotti, e su queste porzioni
di terra asciutta le baracche si ammassano le une sulle altre, collegate da un
dedalo di vicoli strettissimi che consentono a malapena il passaggio ad una
persona per volta. La palude è attraversata da un labirinto di passerelle
traballanti, sconnesse, pericolanti. Noi bianchi le percorriamo con un misto di
vertigini ed orrore, al pensiero di finire in quelle acque putride, mentre gli
abitanti le superano saltellando con agilità, trasportando in molti casi sulle
spalle e sulla testa carichi voluminosi e pesanti.
Ci
sono bambini ovunque e moltissimi, ci dice Don Luciano, non frequentano nessuna
scuola. Chissà
quanti non sono stati nemmeno registrati all’anagrafe e quindi,
per lo Stato, non esistono. Trascorrono le giornate giocando tra i rifiuti,
percorrendo le insicure passerelle pronte ad inghiottirli.
Al
passaggio dei cicloni, sempre più drammatico negli anni recenti, Andavamamba
viene allagata, le baracche distrutte, gli abitanti annegano e scoppiano
epidemie.
È
un luogo sconvolgente.
Andavamamba
sembra essere uscita dalle pagine de “La città della gioia”. Nel pomeriggio
passato nel quartiere siamo riusciti a intraprendere il percorso emotivo e
spirituale che il protagonista del libro vive nello slum di Calcutta (che mi
dicono essere molto migliorato rispetto ai tempi in cui fu scritto il libro).
Le prime sensazioni sono state disgusto e repulsione. Gli odori, la sporcizia,
le condizioni disumane di vita, colpiscono la mente con la forza di un maglio e
gettano in uno stato di
incredulità e disperazione. Poi, minuto dopo minuto,
emergono le persone. È possibile scorgere gli sguardi puri, i sorrisi e –
incredibili a dirsi – sprazzi di gioia. Come è possibile che ci sia felicità in
un luogo come questo, in cui manca tutto e la povertà ha un aspetto così crudo
e violento? Poi, trovandosi in mezzo a bambini sghignazzanti e persone
accoglienti, si affaccia il pensiero che luoghi come questo trasudino di
umanità e di verità, valori che la nostra società soffoca nel lusso e nel
cemento perché tutto ciò che non è bello e di tendenza va nascosto.
Va
tenuta lontana la tentazione di idealizzare luoghi che gridano vendetta contro la
nostra società opulenta, ma il sorriso del povero è un tarlo capace di scavarti
dentro e di metterti piano piano a nudo, dall’interno.
Non
si possono scordare gli abitanti di Andavamamba.
Queste
le parole di Sofia, pronunciate al ritorno:
Grazie a Giacomo A. per le foto.