L’Industria
della Carità è un libro inchiesta della giornalista Valentina Furlanetto. Esso
raccoglie avvenimenti documentati e testimonianze dirette riguardanti gli
scheletri che molte organizzazioni umanitarie celano nei propri armadi. Critica
pesantemente tutte le forme di raccolta fondi operate da associazioni e
organizzazioni, dalla vendita dei fiori nelle piazze al commercio equo, dalle
adozioni internazionali al 5 x 1000. E’ un libro che ha alcuni difetti ma a cui
bisogna sicuramente riconoscere un pregio: racconta molte cose vere.
La
prima questione sollevata è quella della trasparenza. L’Italia è l’unico paese
in cui associazioni e ong non sono obbligate a pubblicare in rete i propri
bilanci. L’autrice riporta il seguente esempio: “Nessuno si lascerebbe operare
da un medico senza essere certo della sua competenza e senza sapere se le operazioni
che ha portato a termine siano andate a buon fine. Nessuno chiede a un chirurgo
di commuoversi, ma di essere bravo in sala operatoria. Lo stesso si dovrebbe
chiedere ad un operatore umanitario. Invece nel nostro paese si dona senza
chiedere conto di nulla, con il rischio
che il paziente muoia e il medico scappi con i soldi”.
che il paziente muoia e il medico scappi con i soldi”.
Un
aspetto su cui la giornalista si sofferma a lungo
riportando dati e citando chiaramente nomi e cognomi riguarda le inefficienze dei più noti organismi preposti agli aiuti umanitari. Il caso più eclatante è quello di Unicef. La sezione italiana di questa colossale agenzia delle Nazioni Unite ha raccolto nel 2011 59 milioni di euro. Di questi solo 8,3 milioni sono diventati progetti direttamente sviluppati da Unicef Italia. Il 23% dei fondi raccolti sono andati a coprire i costi di struttura (oltre 13 milioni!) mentre oltre il 60% è andato ad Unicef International, che avrà utilizzato un’altra fetta di quei fondi per mantenere la propria macchina organizzativa. Praticando un calcolo approssimativo (il libro non si lancia in speculazioni come questa) su 10 euro donati ad Unicef, 4 euro vengono utilizzati per i costi di struttura e circa 6 andranno ai progetti. Considerando poi gli emolumenti che percepiscono gli espatriati Unicef ed il loro stile di vita, non credo che ai beneficiari ultimi arriveranno più di 2 euro dei 10 originariamente donati.
riportando dati e citando chiaramente nomi e cognomi riguarda le inefficienze dei più noti organismi preposti agli aiuti umanitari. Il caso più eclatante è quello di Unicef. La sezione italiana di questa colossale agenzia delle Nazioni Unite ha raccolto nel 2011 59 milioni di euro. Di questi solo 8,3 milioni sono diventati progetti direttamente sviluppati da Unicef Italia. Il 23% dei fondi raccolti sono andati a coprire i costi di struttura (oltre 13 milioni!) mentre oltre il 60% è andato ad Unicef International, che avrà utilizzato un’altra fetta di quei fondi per mantenere la propria macchina organizzativa. Praticando un calcolo approssimativo (il libro non si lancia in speculazioni come questa) su 10 euro donati ad Unicef, 4 euro vengono utilizzati per i costi di struttura e circa 6 andranno ai progetti. Considerando poi gli emolumenti che percepiscono gli espatriati Unicef ed il loro stile di vita, non credo che ai beneficiari ultimi arriveranno più di 2 euro dei 10 originariamente donati.
C’è
poi il grande capitolo dell’infame gestione dei fondi raccolti in seguito alle
devastazioni naturali o dei conflitti umani. Chi lavora nel settore della
cooperazione internazionale sa bene che raccogliere fondi per fronteggiare le
emergenze è di gran lunga più facile e veloce che trovare finanziamenti per
portare avanti progetti a lungo termine che mirano allo sviluppo. La
sensibilità delle persone durante il verificarsi di una crisi umanitaria
permette di raccogliere vere e proprie montagne di soldi, spesso molti di più
di quelli che le organizzazioni sono effettivamente in grado di spendere. Nel
1999, durante la guerra in Kosovo, furono raccolti a livello internazionale più
soldi per la piccola nazione balcanica che per l’Africa intera. Molti albanesi,
sfruttando le opportunità che si presentavano, a fronte di una casa distrutta
durante la guerra se ne sono fatte ricostruire due o tre. Nel libro viene
riportato il caso del terremoto di Haiti: alcune fonti sostengono che il 66% di
tutte le donazioni erogate globalmente siano finite per pagare il funzionamento
delle ong. C’è poi il caso virtuoso di Medici Senza Frontiere, che dopo lo
tsunami del 2004 ricevettero donazioni per 90 milioni di euro e decisero di
sospendere la campagna di raccolta fondi pochi giorni dopo l’inizio della
stessa, chiedendo poi ai donatori il permesso di destinare ad altri progetti i
fondi eccedenti.
Molte
testimonianze dirette raccontano cosa effettivamente accade nei luoghi dove i
soldi raccolti dalle organizzazioni devono essere spesi. La scarsa attenzione
che molti organismi pongono nel reclutamento dei propri operatori espatriati
(spesso spinti dalla necessità di trovare in tempi brevi qualcuno per far
partire i progetti) fa sì che a condurre i progetti siano personaggi
incompetenti e che credono di potersi comportare nei paesi dove vengono inviati
come non si azzarderebbero mai di fare a casa propria. Ho avuto anch’io
numerose esperienze di questo genere di cooperanti, molto impegnati a
garantirsi un tenore di vita elevato se non esagerato e molto poco attenti alle
condizioni di vita della popolazione locale alla quale sarebbero chiamati a fornire
servizi o opportunità di lavoro. Secondo il mio punto di vista stipendi bassi o
addirittura il volontariato puro ed un rigido codice etico sono buoni filtri
per scoraggiare in partenza chi non fosse spinto da sincere motivazioni. Le
organizzazioni umanitarie si scontrano però con problemi etici anche nel corso
della loro attività in Italia: pubblicità indegne che mercificano la sofferenza
e accordi immorali con multinazionali dalla coscienza sporca sono due esempi di
mancanza di etica nei meccanismi di raccolta fondi. Anche le retribuzioni di
chi lavora in questo settore devono seguire una moralità inflessibile: il
direttore di Save the Children Usa non
può guadagnare 365.000 dollari all’anno!
La Fondazione Umberto Veronesi fa del sostegno alla ricerca scientifica la sua mission principale. Eppure dal bilancio (che non è pubblicato sul sito) emerge che nel 2011 dei 10 milioni di euro raccolti solo il 18% è stato indirizzato alla ricerca. La
lista di scandali riportati è molto lunga, e nella maggior parte dei casi si
tratta di fatti ignoti alla disattenta opinione pubblica. Una volta calato il
sipario su una campagna pubblicitaria o un grande evento di raccolta fondi
nessuno si va a informare su quale siano stati gli effettivi risultati presso i
beneficiari.
Il
rischio di un libro come questo è quello di gettare nello stesso calderone
tutti coloro che si occupano di beneficienza e solidarietà, virtuosi e non.
Credo però che l’obbiettivo della giornalista fosse principalmente quello di
suscitare due stimoli. Il primo messaggio è rivolto a chi fa donazioni,
affinché doni consapevolmente e si informi sulle reali credenziali dell’organismo
che decide di sostenere. Il secondo stimolo è poi rivolto alle associazioni,
alle onlus, alle ong, alle cooperative sociali. Chi lavora con l’obbiettivo di
assistere i sofferenti, aiutare i bisognosi e promuovere lo sviluppo dei più
poveri deve farlo in maniera efficiente, trasparente ed eticamente corretta.
M.L.
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