Finalmente,
di prua, apparve Unguja. Il gruppo comprendeva altre due isole più piccole,
Pemba e Latham, ma quando i marinai parlavano di Zanzibar, di solito si
riferivano a quell’isola. Era sormontata da una massiccia fortezza, costruita
con blocchi di corallo bianco scintillante che splendevano al sole come un
iceberg. I bastioni erano fitti di potenti cannoni. [...] Lo
specchio d’acqua era congestionato da una massa d’imbarcazioni munite di alberi
a prora e a poppa, ancorate in un disordine incredibile. Alcuni dei dhow oceanici erano grandi come la Seraph: appartenevano ai commercianti
giunti fin lì dall’India, da Muscat e dal mar Rosso. Non c’era modo tuttavia di
capire se fossero pirati: probabilmente lo erano tutti, se si presentava
l’occasione. […]
Passando
sotto la fortezza, ammainò i suoi colori in omaggio al rappresentante del
sultano, poi diede fondo al limite della gittata delle batterie di cannoni.
Aveva imparato da tempo a diffidare anche del più caloroso e aperto benvenuto
di quello staterello africano.
Non
appena furono ancorati, uno sciame di piccole imbarcazioni si fece avanti per
salutarli, offrendo merci per alimentare qualunque vizio o esigenza, dalle noci
di cocco verdi agli involti di foglie e fiori di bhang, che erano una droga, dai servizi sessuali di schiavetti e
schiavette dalla pelle scura agli aculei di porcospino pieni di polvere d’oro.
[…]
La
barca li depositò sul molo di pietra sotto le mura spesse e bianche del forte.
Aboli apriva la strada tra la folla di mercanti oziosi, addentrandosi nel
dedalo di viuzze e vicoli che consentivano appena il passaggio di tre uomini
affiancati.
Il
fetore delle fogne a cielo aperto che scendevano verso il porto era tanto forte
da far salire il vomito in gola a Hal. Il caldo, nei punti in cui non arrivava
la brezza, era soffocante, e si ritrovarono il dorso della camicia intriso di
sudore prima di avere percorso un centinaio di passi. Alcuni degli edifici
erano alti tre piani, e nessuna delle pareti era a filo; sporgevano e si
gonfiavano verso l’esterno, quasi incontrandosi in alto. Dai balconi superiori,
chiusi da intricati schermi traforati di assicelle, creature femminili senza
volto, avvolte in veli neri, li sbirciavano attraverso le cortine dello zenana, l’appartamento riservato alle
donne in ogni casa musulmana.
Era
la stagione dei monsoni, che attirava mercanti di schiavi provenienti da tutte
le regioni estreme dei Paesi orientali. Aboli li guidò attraverso il mercato
degli schiavi; era un grande suk a cielo aperto, riparato però da un boschetto
di baniani, dai grandi tronchi serpentini e dal fitto fogliame verde scuro.
Gruppi
di schiavi in vendita erano accovacciati all’ombra delle larghe chiome degli
alberi. Hal sapeva che erano stati incatenati il giorno stesso della loro
cattura nel cuore del continente africano e non erano più stati liberati, né
durante il lungo e massacrante viaggio fino alla costa né una volta giunti ai
recinti, riservati appunto agli schiavi, a bordo dei dhow che li avevano trasportati attraverso il canale. Alcuni degli
uomini erano marchiati a fuoco sulla fronte, con la cicatrice ancora rosea,
rimarginata da poco. Quei segni indicavano che erano stati castrati nei recinti
degli schiavi, sulle spiagge del continente, ed erano destinati al mercato in
Cina. Infatti l’imperatore cinese aveva decretato che non fossero importati
schiavi neri che potessero imbastardire la purezza del suo popolo. Il prezzo di
quegli eunuchi era quasi doppio, a causa delle perdite dovute alla natura
rudimentale dell’operazione chirurgica e della cauterizzazione.
Gli
acquirenti giunti dalle navi nel porto stavano esaminando le offerte e
contrattando con i negrieri, vestiti di tuniche lunghe fino alla caviglia, col
copricapo composto da un telo di stoffa avvolto intorno alla testa. Hal si fece
largo a spallate per entrare nel labirinto di vicoli dalla parte opposta del
suk.
Sebbene
fossero passati quasi vent’anni, Aboli li condusse senza il minimo errore fino
alla massiccia porta di mogano che si apriva sulla strada chiassosa. Era
tempestata di borchie di ferro e intagliata con versetti del Corano e intricati
disegni di gusto islamico in cui non erano rappresentate figure di uomini o
animali, segni d’idolatria. Uno schiavo abbigliato con una lunga tunica e un
turbante di colore nero venne ad aprire.
Testo tratto da “Monsone”, di Wilbur
Smith.
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