l secondo impatto con la messa africana e arrivato molti anni dopo a Wajir, nel nord-est del Kenya. Qui partecipare alla messa è un vero e proprio atto di eroismo. L’esterno del muro di cinta della parrocchia è butterato di colpi di artiglieria ed il Cristo in croce che sovrasta l’altare è privo di braccia, spezzate nel corso di un’ondata di fanatismo anticristiano. A Wajir il 99% della popolazione è di etnia somala dunque di religione musulmana e gli unici cattolici presenti sono i kenyani “immigrati” al nord che lavorano negli uffici pubblici, nella polizia e nell’esercito. La regione è tutt’altro che stabile, e saltuariamente durante la celebrazione musulmana del venerdì qualche mullah esaltato incita i fedeli ad invitare i cristiani rimasti ad andarsene. Tutto questo contesto però rimane fuori dalla Chiesa, e l’allegria della messa, i canti e i balli non sono meno festosi di qualunque altra parte del Kenya.
In Tanzania ho preso parte a numerose messe, addirittura a diversi matrimoni (tra cui il mio). Non è descrivibile il clima di festa che accompagna la domenica. Nel mondo occidentale abbiamo dimenticato il significato della domenica e del perché non si lavora e non si va a scuola.
Voglio invece raccontare, anche in questo caso, due emozioni che ho rubato alle messe tanzaniane e che mi fanno ancora sorridere mentre le descrivo.
Le messe venivano sempre celebrate dai catechisti dal momento che la parrocchia era molto grande, i villaggi numerosi e l’unico prete era quindi costretto a celebrare messa a rotazione nelle varie comunità. Il giovedì mattina padre Moises, grazie ad una convergenza di impegni, riusciva comunque all’alba a celebrare messa a Bomalang’ombe. Quando iniziava la messa era ancora buio, e nei mesi invernali sugli altipiani della Tanzania può fare veramente freddo. Eppure nella notte molte persone, in particolare donne giovani ed anziane vestite di pochi stracci, venivano a ricevere l’Eucarestia nonostante l’ora ed il freddo. Durante la messa erano più numerosi gli sternuti e i colpi di tosse che le parole, eppure vedevo in quelle occasioni delle prove di Fede cui molti, anche in Vaticano, dovrebbero assistere.
Tutti i pomeriggi, al termine del lavoro, mi recavo a tirare due calci al pallone nel campo adiacente la chiesa. Si giocava fino al calar del sole e a volte anche oltre. Le nostre partite di calcio erano allietate dai canti che il coro quotidianamente provava, e a bordo campo un catechista insegnava ai bambini i passi dei balli da eseguire nel corso della messa. Confesso che a volte, durante il crepuscolo correndo dietro ad un pallone ed ascoltando le musiche celestiali che provenivano dalla chiesa, mi sembrava di giocare in Paradiso.
M.L.
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