Nel mondo cosiddetto "sviluppato" la strada è quella linea che unisce due luoghi. Non ha alcun significato intrinseco se non quello di condurre da qualche parte. Nella maggioranza dei casi è una perdita di tempo necessaria per raggiungere il luogo di lavoro o una sospirata meta vacanziera. In Africa non è quasi mai così. Ogni chilometro ha un proprio senso preciso in quanto può nascondere un insegnamento da ricordare o un ostacolo da superare. L'impossibilità di procedere è generalmente il motore di esperienze che si vivono lungo la strada, impone la sosta e prepara il terreno all'imponderabile, al caso ed al destino.
Un episodio emblematico avvenne la prima (sottolineo "la prima") volta che mi recai al villaggio sede del progetto. All'epoca frequentavo il corso di kiswahili che si svolgeva dal lunedì al venerdì ad Iringa. Invece di crogiolarmi per tutto il weekend nella vita cittadina preferii recarmi nel luogo in cui avrei vissuto per due anni, impaziente di gettarmi nella mischia. Decisi (non che avessi altra scelta) di arrivarci con l'autobus scalcinato che ogni giorno percorre la tratta Iringa-Bomalang'ombe. Era l'inizio della stagione delle piogge, ma all'epoca ancora non sapevo cosa ciò potesse comportare. Il viaggio fu molto interessante, dato che ebbi modo di studiare tutto il percorso e i caratteristici villaggi che si succedevano. Pranzai con un'ottima pannocchia abbrustolita acchiappata al volo durante una delle numerose e lunghe soste, studiate senz'altro più a favorire il commercio degli abitanti dei villaggi che a consentire la discesa e la salita dei passeggeri, operazione che si svolgeva nell'arco di un paio di minuti. La cosa curiosa era che ogni villaggio era specializzato in una particolare merce: c'era il villaggio della frutta, quello dei pomodori, quello delle pannocchie, ecc. Come se fosse stato stabilito un tacito accordo di non belligeranza commerciale tra i diversi villaggi. Nel corso degli anni avrei poi imparato ad apprezzare il progressivo variare delle merci vendute in virtù del succedersi delle stagioni che influivano sulle produzioni agricole disponibili.
Dopo circa quattro ore dalla partenza, arrivati a Kidabaga, l'autobus si fermò. Kidabaga era (ed è tuttora) un grosso villaggio che si trovava a trenta chilometri dalla mia meta e che segnava il confine tra la pista in buone condizioni e quella meno battuta.
All'inizio valutai che si trattasse di una delle classiche e interminabili soste che avevano costellato il percorso, ma quando rimasi l'unico passeggero capii che qualcosa non andava. Con un kiswahili stentato (avevo alle spalle solo una settimana di lezione) capii, o meglio intuii, che la strada da Kidabaga a Bomalang'ombe era troppo brutta, che l'autobus non poteva farcela e si sarebbe di certo impantanato. A Kidabaga non esistevano luoghi che ritenessi adatti a dormire (ma questa valutazione era destinata a cambiare radicalmente con il passare del tempo) per cui cominciai a preoccuparmi. Trenta chilometri a piedi sono tanti, soprattutto di notte e senza conoscere la strada. Questo problema non affliggeva soltanto me, ma anche tutti i passeggeri che erano diretti nei villaggi oltre Kidabaga. A domanda, come sempre, corrispose un'offerta. Un abitante di Kidabaga improvvisò un mezzo di trasporto su cui ci propose di salire dietro, ovviamente, un ragionevole compenso. Si trattava di un trattore a cui venne agganciato un misero carro realizzato con un puzzle di pezzi di ricambio malamente assemblati. Sul fondo del carro vennero sistemati tutti i bagagli e sopra questi ci disponemmo noi passeggeri insieme ad alcune galline in gabbia. Tutta questa impalcatura cigolava e scricchiolava ad ogni metro, ed era immediatamente evidente che il carro si sarebbe schiantato di lì a poco. Prima del definitivo cedimento strutturale, che avvenne a circa dieci chilometri dall'arrivo, si ruppero per l'eccessivo peso tutte le ruote ad una ad una. Le camere d'aria vennero tutte aggiustate artigianalmente per poi proseguire ogni volta. Ad ogni pit stop la gente scendeva con calma e rassegnazione, e aspettava con pazienza il momento in cui si sarebbe ri-arrampicata sul cumulo di sacchi e bagagli per riprendere la marcia. Ad una decina di chilometri dall'arrivo, come detto, il carro collassò ed il semiasse cedette. Erano le undici di sera, era buio da diverse ore, e la gente ancora una volta scese per assistere alle operazioni di riparazione. Questa volta era evidente che senza l'aiuto di un meccanico vero non sarebbe stato possibile sistemare il carro, ma la maggior parte dei passeggeri volle negare l'evidenza ed attendere che si verificasse il miracolo ad opera dei nostri sprovveduti traghettatori. Io ero maledettamente stufo, e spiegai che avrei proseguito a piedi. Venni seguito soltanto da due donne che dividevano il peso di due bagagli ed un lattante. Io probabilmente fornivo loro un barlume di sicurezza, loro indicavano la strada. In due ore arrivammo al villaggio, ed all'una di notte, esattamente tredici ore dopo essere partito da Iringa, svenni esausto nel letto.
M.L.
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