Il trasporto aereo consente di coprire grandi distanze nell’arco di poche ore e rende il viaggio una formalità da chiudere il più velocemente possibile. Per certe località questo non è possibile semplicemente perchè non esistono voli di linea e noleggiare un aereo rimane un’opzione fuori della portata di budget “popolari”.
Ecco che allora si è costretti a percorrere lunghissime distanze con mezzi pubblici sprecando intere giornate in spostamenti di poche centinaia di chilometri, e questo può scoraggiare molti.
Ciò può però divenire l’occasione di mescolarsi con la cultura locale e di vedere scorrere davanti ai propri occhi il paesaggio, apprezzandone i mutamenti e avvertendo fisicamente la sensazione delle distanze coperte.
E’ questo il caso del tragitto verso il nord-est del Kenya, percorrendo la strada e poi la pista che da Nairobi conduce a Wajir.
I preparativi sono già all’altezza di ciò che il viaggio riserverà. Tutte le compagnie di autobus infatti che coprono questa tratta si trovano e partono dal quartiere “Eastleigh” di Nairobi, un quartiere malfamato e abitato quasi esclusivamente da somali. Discariche in fiamme, voragini in mezzo alle strade, sguardi poco rassicuranti che si incrociano ovunque, donne completamente velate e uomini in tuniche bianche costituiscono il comitato di benvenuto in questa zona della capitale keniana.
Un’informazione essenziale per chi debba salire sopra uno di questi autobus è la seguente: è vitale sedersi nei sedili anteriori e quindi prenotare con largo anticipo. Se, come è capitato a noi, dovesse succedere di trovare disponibili solamente i sedili posteriori, è consigliabile cambiare la data della partenza e trovare posto su un autobus più libero.
La pena per aver infranto questa legge così banale e di dominio comune tra i viaggiatori abituali, è una tortura fisica di proporzioni inimmaginabili. Se chi siede davanti avverte le buche nella strada come un fastidioso inconveniente, chi siede negli ultimi sedili dell’autobus dovrà trascorrere tutte le dodici ore del viaggio ancorandosi saldamente a maniglie e sostegni oppure alzandosi in piedi all’approssimarsi di ogni asperità. Gli scossoni proiettano gli sventurati dei sedili posteriori l’uno contro l’altro, si fanno salti di oltre un metro per poi venire sbattuti violentemente verso il basso, le teste cozzano con forza sul soffitto dell’autobus. E’ un supplizio difficilmente descrivibile di eterna durata.
La prima metà del viaggio copre il tratto Nairobi - Garissa ed è (abbastanza) asfaltata. Lungo la strada scorrono immense piantagioni di ananas, moderne serre e sparuti baobab. I lineamenti della gente che si scorge lungo la strada cambiano progressivamente dai marcati tratti bantu ai più fini tratti nilotici dei somali, mentre le casette e le capanne dai tetti ai punta dei villaggi keniani lasciano il posto alle semplici capanne somale a forma di cupola.
A Garissa termina la strada asfaltata e iniziano le piste sabbiose che conducono verso il nord-est e, dopo aver superato l’equatore, a Wajir. Il paesaggio cambia bruscamente e diventa semidesertico, le acacie spinose sono la specie arborea predominante ed assieme ai secchi cespugli rimangono le sole a sfidare l’arida distesa sabbiosa. Il sole riverbera sulla superficie biancastra del terreno e la polvere e la sabbia che si alzano al passaggio degli automezzi penetrano attraverso gli sconnessi finestrini. Le condizioni di viaggio diventano oggettivamente dure.
Ciò che lascia sbalorditi e che questo ambiente così inospitale ed estremo si rivela ricco di vita. Le mandrie di capre e zebù si affiancano ai carretti trainati dagli asini ed alle colonne di dromedari che i nomadi somali spostano in continuazione nel “bush” alla ricerca di acqua e di cibo. I villaggi provvisori dei pastori somali spuntano ovunque ed a distanze enormi l‘uno dall’altro. I pastori si aggirano in questa regione accompagnati dai membri del proprio clan, montando e smontando le capanne trasportate a dorso di dromedario. E’ uno stile di vita imprescindibile dalla cultura somala, che preferisce abbandonare chi non può aderirvi come anziani, disabili e donne non in grado di percorrere lunghe distanze a piedi piuttosto che rinunciare al nomadismo.
Ma non è solo la componente umana ad animare il paesaggio riarso dal sole. Prestando attenzione è possibile scorgere facoceri, giraffe, gazzelle di Grant, orici, gerenuk, dik dik e struzzi. Come tutti questi animali possano sopravvivere in questo ambiente pare un mistero.
In certi tratti la vegetazione scompare completamente e ci si ritrova completamente in mezzo al deserto, e l’autobus prosegue spedito sbandando di tanto in tanto tra dune e i solchi scavati dai trasporti precedenti. Una riflessione a parte andrebbe rivolta alla tenuta di questi sgangheratissimi mezzi, che affrontano questo viaggio assurdo tra buche, dune e temperature torride senza mostrare grosso segni di cedimento. Difficilmente autobus più moderni potrebbero comportarsi meglio dei loro decrepiti e malandati omologhi keniani.
Dopo dodici (o più) ore all’interno di queste traballanti fornaci si giunge finalmente a Wajir, una grande città in mezzo al nulla. Improvvisamente in mezzo al deserto compaiono edifici in muratura, ripetitori per le telecomunicazioni, banche e distributori di benzina. Ad una distanza di quasi mille chilometri da Nairobi compare di nuovo la civiltà. Non si tratta però esattamente di un’oasi… ma questa è un’altra storia.
M.L.
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